C’era ovviamente grande attesa perMegalopolis, ritorno al cinema diCoppolaa tredici anni daTwixtcon un progetto covato per moltissimo tempo, annunciato, avviato, interrotto e poi finalmente portato a termine con un ingente investimento personale. Una fantasia, o meglio una fiaba come dice il sottotitolo, in cui laRoma imperialeè paragonata aNew York, se non addirittura sovrapposta, letteralmente, con le immagini della metropoli contemporanea spesso incorniciate da colonne antiche, in un ricercato e ribadito effetto dipicture in picture.
L’aspetto più evidente diMegalopolis– e pure il motivo per cui l’attesa per molti si è trasformata in delusione, e prima ancora in sbigottimento e noia – è la sua esuberanza visiva senza freni, artificiosa, colorata, eccitata, oltre i concetti di Kitsch e ridicolo volontario, con effetti digitali che plasmano lo spazio e lo trasformano in luce cangiante e malleabile (e giallastra, come sempre). DopoUn sogno lungo un giorno,Rusty il selvaggio,Dracula,Un’altra giovinezza, il set diCoppolaè ancora una volta una superficie trasparente, uno spazio che da maquette (in una scena inziale i personaggi si muovono su strutture sospesesul plastico della futura città che nascerà dalle macerie di Roma/New York) si fa immagine.
Inevitabile che nell’era del digitale e del green screen onnipresenti, la visionarietà diCoppolasfrutti tutta la tecnologia e i materiali a disposizione, passati, presenti e futuri (i quotidiani di carta, la tv, le penne USB, l’AI, qui chiamata “megalon”, nuovo materiale che può tutto, anche ricreare un corpo sfigurato), per dare vita a uncinema ipertroficoche s’interroga sull’esistenza stessa delle immagini oggi, sul loro mondo di riferimento, la loro origine e la loro destinazione.
Se inUn sogno lungo un giornol’incrocio indistinguibile di realtà e illusione era ripreso dal passaggio all’epoca rivoluzionaria tra pellicola e video, nel mondo diMegalopolis(e nel cinema di oggi, a rivoluzioni già compiute o non ancora definite) il digitale non fa che rimandare a sé stesso, l’intero set è fatto di assenze, di luoghi e spazi che mancano.
Il film ha per protagonista un architetto visionario, ecologista e pieno di hybris, il cui nome è sia Catilina sia Cesare (cioè il congiurato e il distruttore, o il costruttore di un altro ordine), che costruisce con il megalon di sua invenzione la città del futuro – la Megalopolis del titolo – dentro i confini della stessa New York, distruggendo vecchi quartieri a colpi di dinamite e poi grazie all’abbattimento sulla città dei resti di un satellite sovietico schiantatosi contro l’atmosfera. Come gli viene detto nel film, la sua utopia rischia di diventare distopia, il suo sogno incubo, e così ancheMegalopolis, che nonostante i colori sgargianti e il tono scanzonato e a volte ridicolo è in realtà cupissimo, il delirio di un genio ottantenne che deve, sa e vuole essere produttore di sé stesso.
Se lo spazio del cinema sembra mancare di un rimando, di un mondo reale di riferimento – tanto che nella proiezione di Cannes c’è stato anche un clamoroso abbattimento della quarta parete che divide pubblico e personaggi sullo schermo, come a dire che è proprio il gioco di rimbalzi tra spettacolo e spettatore il vero elefante nella stanza del cinema di oggi – a Coppola rimane però il tempo, come del resto ha sempre sostenuto, inPeggy Suesi è sposata,Dracula,Jack, ancoraUn’altra giovinezza… Tempo da fermare, da far ripartire e plasmare unendo sfacciatamente epoche della storia, citazioni colte e battutacce, Shakespeare e Marco Aurelio, cinema contemporaneo nell’aspetto ma vecchio (volutamente vecchio) nel ritmo, pieno di una parola che non mette in bocca ai personaggi frasi consapevoli ed esplicative (come avviene in ogni serie tv, dove ogni dialogo è scritto col misurino), ma ha una dimensione teatrale e declamatoria.
Coppolanon è un artista concettuale, non dà corpo a un’idea, non sintetizza lo spazio nel tempo (pensiamo ai Coen e al tempo che si fermava inMr Hula Hoop); cerca piuttosto l’idea nel movimento, nel passaggio dall’artificio all’illusione, come se fossimo ancora nella Londra di fine XIX secolo, dove Dracula seduceva Nina di fronte a uno schermo che proiettava i primi film muti e nel frattempo, in quello stesso baraccone metropolitano, qualcuno allestiva uno spettacolo di ombre…
Megalopolisnon si arrende semplicemente alla pervasività dell’immagine contemporanea, onnipresente ma trasparente: il suo eccesso, che chiama loscultma lo supera in virtù della sua estraneità (all’idea di bello e alle sue categorie aleatorie, al mercato e al capitalismo finanziario), serve proprio a cercare ovunque, anche nello sporco (e cioè nella miseria visiva dei cinecomics, che è un filino tenuta più a bada di quella diMegalopolisperché è il prodotto del sistema, la voce del padrone), un possibile spazio per il cinema. L’utopia di immagini che creino illusioni come quelle diPowell e Pressburger, che restano il punto di riferimento principale diCoppola, daiRacconti di Hoffmanin giù, con i loro deliri ipnagogici così sottili e così veri. Certo, il digitale non potrà mai trovare la medesima concretezza della pellicola, ma la solida trasparenza su cui il film si chiude (una lastra di vetro, niente di più) sintetizza la semplicità del cinema, il suo gioco alla Méliès.
SeCoppolaresta un regista di un’altra epoca è nell’ambiguità della sua lettura politica, nella celebrazione di un capitalismo illuminato contro il lerciume della corruzione e del populismo (nel film Catilina si oppone al sindaco di New York Cicero e al potere della ricchissima famiglia di banchieri Crassus) e nella sua fede verso l'artistache guidail popolo alla liberazione… Dietro Catilina c’è ovviamente lui, il regista-demiurgo, ma dietro le sue visioni ci sono i dolori e i fallimenti di sempre: il trauma di un figlio morto, il legame con la madre, l’ossessione per un potere che deve comunque restare in famiglia.
Il futuro è dunque in mano a chi è appena arrivato, ma il mondo che lasciamo in eredità sarà per sempre una discarica di tutto ciò che abbiamo prodotto, distrutto e creato. Immagini comprese.